9, Giu 2024
MUSEO CAPPELLA SAN SEVERO

Le origini della Cappella

Le origini della Cappella Sansevero sono legate a un episodio leggendario. Narra, infatti, Cesare d’Engenio Caracciolo nella Historia della Napoli Sacra del 1623 che, intorno al 1590, un uomo innocente, trascinato in catene per essere condotto in carcere, passando dinanzi al giardino del palazzo dei di Sangro, vide crollare una parte del muro di cinta di detto giardino e apparire un’immagine della Madonna. Egli promise alla Vergine di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione, qualora fosse stata riconosciuta la propria innocenza: scarcerato, l’uomo tenne fede al voto. L’immagine sacra divenne allora meta di pellegrinaggio, dispensando molte altre grazie.

Poco dopo, anche il duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro, primo principe di Sansevero, gravemente malato, si rivolse a questa Madonna per ottenere la guarigione: miracolato, per gratitudine fece innalzare, lì dove era apparsa per la prima volta la venerabile effigie (oggi visibile in alto sull’Altare maggiore), una “picciola cappella” denominata Santa Maria della Pietà o Pietatella. Fu però il figlio di Giovan Francesco, Alessandro di Sangro patriarca di Alessandria, che intraprese nei primi anni del ’600 grandi lavori di trasformazione e ampliamento, modificando l’originario sacello in un vero e proprio tempio votivo destinato a ospitare le sepolture degli antenati e dei futuri membri della famiglia.

La sistemazione seicentesca della Cappella rimase inalterata fino agli anni ’40 del ’700, quando pose mano all’ampliamento e all’arricchimento del tempio Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero. Seguì un periodo di grande fervore, in cui egli profuse nell’impresa forze e sostanze, impegnandosi con entusiasmo e competenza, chiamando presso di sé pittori e scultori rinomati, sovrintendendo personalmente alle fasi di lavorazione, scegliendo e talvolta realizzando i materiali. L’idea era quella di farne un tempio maestoso, degno della grandezza del casato, arricchendolo di opere di altissimo pregio.

Principe di San Severo

Raimondo di Sangro, rampollo di un casato d’altissimo rango, nacque il 30 gennaio 1710 a Torremaggiore, in Puglia, dove i Sansevero possedevano la maggior parte dei loro feudi.

Affidato alle cure del nonno Paolo, sesto principe di Sansevero, a un anno Raimondo fu trasferito a Napoli, allora capitale del Viceregno austriaco, dove i suoi antenati avevano fissato la propria dimora in un imponente palazzo in largo San Domenico Maggiore.

A Napoli, Raimondo trascorse gran parte dell’infanzia e ricevette una prima educazione, venendo avviato allo studio della letteratura, della geografia e delle arti cavalleresche.

Presto, però, si comprese che la sua era una mente eccezionalmente dotata ed il nonno decise di inviarlo a Roma presso il Collegio dei Gesuiti, la scuola più prestigiosa dell’epoca. A Roma, Raimondo si dedicò alla filosofia e alle lingue (arriverà a padroneggiarne almeno otto), alla pirotecnica e alle scienze naturali, all’idrostatica e all’architettura militare.

Fu un originale esponente del primo Illuminismo europeo. Uomo d’armi, accademico della Crusca, letterato, editore e tipografo clandestino, primo Gran Maestro della Massoneria napoletana, egli fu, principalmente, un’ inventore e generoso mecenate. Nei laboratori sotterranei del suo palazzo, in largo San Domenico Maggiore, il principe si dedicò a sperimentazioni nei più disparati campi delle scienze e delle arti, dalla chimica all’idrostatica, dalla tipografia alla meccanica.

Raggiunse così notevoli risultati che ai suoi contemporanei apparvero eccezionali.

Raimondo di Sangro viene soprattutto legato alla cappella Sansevero, una tra le meraviglie dell’arte mondiale, un favoloso progetto iconografico che egli stesso creò.

Il messaggio intellettuale, che, con incredibile lungimiranza, trasfuse nel marmo della Cappella Sansevero, è così passato alla posterità, con il suggestivo progetto iconografico del quale il principe fu geniale ideatore. Parte di quel messaggio egli affidò anche ai suoi scritti, e in particolare alla Lettera Apologetica, opera che destò sconcerto sia per l’eccezionalità tipografica sia per il controverso contenuto, tanto da essere stata messa all’indice come libro proibito dalla Chiesa e che gli valse addirittura la scomunica Papale.

Ritenuto un erede della tradizione alchemica e un espositore della giovane scienza moderna, Raimondo di Sangro diede vita a un vero e proprio mito intorno alla propria persona destinato a durare nei secoli.

Raimondo di Sangro morì a Napoli il 22 marzo 1771.

Tomba di Raimondo di Sangro

Il Cristo velato

Posto al centro della navata della Cappella Sansevero, il Cristo Velato è una delle opere più suggestive al mondo.

Il Cristo velato è una scultura marmorea dello scultore napoletano Giuseppe Sanmartino realizzata nel 1753. 

Raimondo di Sangro fu il committente di quest’opera, che originariamente doveva essere collocata nella cavea sotterranea della Cappella, vano che oggi ospita le Macchine anatomiche.

L’incarico di eseguire il Cristo velato fu in un primo momento affidato allo scultore Antonio Corradini; tuttavia, deceduto da lì a breve, questi fece in tempo a realizzare solo un bozzetto in terracotta oggi al museo nazionale di San Martino. L’incarico passò così a Giuseppe Sanmartino, a cui venne chiesto di produrre «una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua».

La moderna sensibilità dell’artista, che all’epoca aveva solo 33 anni, scolpisce il corpo senza vita di Cristo, con le pieghe del velo quasi coincidenti alla passione subita prima della morte e ad una pronta resurrezione della carne attraversando  una sofferenza profonda.

La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato con la ferita ricevuta dalla lancia del destino, non solo mostrano un’attenzione ai dettagli dell’artista, ma anche i virtuosismi tipici del tardo barocco. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità.

La leggenda del velo

La fama di alchimista e audace sperimentatore di Raimondo di Sangro ha fatto fiorire sul suo conto numerose leggende. Una di queste riguarda proprio il velo del Cristo di Sanmartino: da oltre duecentocinquant’anni, infatti, viaggiatori, turisti e perfino alcuni studiosi, increduli dinanzi alla trasparenza del sudario, lo hanno erroneamente ritenuto frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” compiuto dal principe di Sansevero.

In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua. Ricordiamo tra questi un documento conservato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, che riporta un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino firmato da Raimondo di Sangro (il costo complessivo della statua ammonterà alla ragguardevole somma di cinquecento ducati).

Nel documento, datato 16 dicembre 1752, il principe scrive esplicitamente: “E per me gli suddetti ducati cinquanta gli pagarete al Magnifico Giuseppe Sanmartino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo…”. Anche nelle lettere spedite al fisico Jean-Antoine Nollet e all’accademico della Crusca Giovanni Giraldi, il principe descrive il sudario trasparente come “realizzato dallo stesso blocco della statua”. Lo stesso Giangiuseppe Origlia, il principale biografo settecentesco del di Sangro, specifica che il Cristo è “tutto ricoperto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo”.

Il Disinganno

Il Disinganno è il massimo capolavoro di Francesco Queirolo e si trova all’interno della Cappella Sansevero, a Napoli.

Questa straordinaria opera è stata realizzata tra il 1753 e il 1754 e fu dedicata da Raimondo di Sangro al padre Antonio, duca di Torremaggiore. Dopo la morte della consorte, il duca si dedicò a una vita dissoluta e poco ordinata, trascurando completamente il figlio Raimondo che fece accudire dal nonno Paolo.

Antonio di Sangro in vecchiaia si pentì e tornò a vivere a Napoli dopo aver girato per tutta l’Europa, e volle trascorrere gli ultimi anni della sua esistenza come sacerdote (la statua fa riferimento all’ultima parte della sua vita, quando l’uomo si liberò dai vizi e, divenuto sacerdote, condusse una vita virtuosa).

L’opera del Disinganno rappresenta un uomo che si sta liberando dalla rete del peccato che fino al momento lo aveva tenuto prigioniero. 

Vicino all’uomo c’è un genio alato che lo aiuta a togliere la rete indicando il globo terrestre immediatamente sotto i suoi piedi. 

Sulla testa coronata ha una fiamma che simboleggia l’intelletto umano.

Inoltre, vicino alla raffigurazione della terra si vede un libro aperto: è una Bibbia (testo sacro per i cristiani, ma anche una delle tre “grandi luci” della Massoneria).

Sul basamento, invece, Queirolo scolpì il bassorilievo dell’episodio di “Cristo che dona la vista al cieco”, questo è un modo per far capire che l’uomo che si libera dalla rete del peccato, torna a vedere.

Nel libro “Istoria dello Studio di Napoli” (1753-1754) Giangiuseppe Origlia definisce la statua “l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi”: il riferimento è Senza dubbio alla rete scolpita dall’artista è una prova di bravura eccezionale e che lasciò sbalorditi numerosi viaggiatori del 700 e dell’ 800 ma anche turisti del giorno d’oggi. 

Si narra che Queirolo volle personalmente lucidare la rete con la pomice perché gli artigiani che all’epoca si occupavano delle rifiniture delle sculture in marmo, non vollero metterci mano per il timore di danneggiarla seriamente.

La Pudicizia

La Pudicizia, nota anche come Verità velata, è un’opera scultorea realizzata nel 1752 dal veneto Antonio Corradini, scultore di fama europea al servizio dell’imperatore Carlo VI a Vienna ed esponente del Rococò

L’artista fu incaricato dal principe Raimondo di Sangro di scolpire, nella Cappella Sansevero, a Napoli, un monumento commemorativo per la madre Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona.

L’opera raffigura una donna che ha il peso del corpo sbilanciato maggiormente su un piede; tale posa garantisce sia un’accentuazione della fisionomia femminile, sia l’idea del movimento: gli artisti del XVIII secolo in Italia, infatti, erano particolarmente interessati alla rappresentazione del movimento, e anche Corradini lo era. Il volto della Pudicizia volge lo sguardo lontano da chi la osserva, e gli occhi sono protetti dal velo trasparente. Sebbene il corpo manifesti sensualità, il suo volto esprime sentimenti differenti. Il velo aderisce ai seni, esaltandone le forme,  ma copre il pube, per far sì che la figura non sia esplicitamente lussuriosa. Quest’ultima, pertanto, è esposta, ma metaforicamente protetta dal velo. Il suo liscio corpo perfetto è sinuoso, come se fosse privo di ossa. Tutte queste caratteristiche lasciano credere alla rappresentazione di una creatura divina e non di una donna comune.

Con quest’opera l’artista raggiunge un altissimo grado di perfezione nel modellare il velo posto sul corpo della donna con eleganza e naturalezza.

Lo sguardo perso nel tempo, l’albero della vita, la lapide spezzata sono i simboli di un’esistenza troncata troppo presto e palesano il dolore del figlio Raimondo, che volle così tramandare fattezze e virtù della giovane madre. Al tema vita/morte fa esplicito riferimento anche il bassorilievo sul basamento, con l’episodio evangelico del “Noli me tangere”, in cui Cristo appare alla Maddalena in veste d’ortolano.

Risultato immagine per La pudicizia

Le macchine anatomiche

Nella Cavea sotterranea della Cappella Sansevero sono oggi conservate, all’interno di due bacheche, le famose Macchine anatomiche, o Studi anatomici, ossia gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta, con il sistema artero venoso quasi perfettamente integro. Le Macchine Furono realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno, e alcune fonti settecentesche poste di recente in evidenza attestano che la macchina anatomica maschile fu acquistata nel 1756 da Raimondo di Sangro, in seguito a una esibizione pubblica che l’anatomopatologo siciliano tenne a Napoli. Il principe, inoltre, prese Salerno a lavorare per sé, assegnandogli una cospicua pensione annua, e gli commissionò la realizzazione dell’altra macchina anatomica.

Queste realizzazioni vanno inserite nell’ampio spettro di sperimentazioni e interessi del principe di Sansevero, che si occupò anche di medicina: d’altra parte, lo scheletro della donna era su una pedana e si faceva “girare d’ogni intorno, per osservarne tutte le parti”, particolare che fa capire come Raimondo di Sangro lo avesse ideato quale oggetto di studio. Non va dimenticato, tuttavia, il suo intento – andato a buon fine – di meravigliare gli osservatori contemporanei e posteri, né è priva di suggestioni l’originaria collocazione delle Macchine nell’Appartamento della Fenice, uccello quest’ultimo legato al mito della risurrezione e dell’immortalità.

Risultato immagine per MACCHINE ANATOMICHE
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